NOTE DI FOTOGRAFIA
di David Finn
da: David by Hands of Michelangelo
di Frederick Hartt
Abbeville Press, New York, 1987
(traduzione di Andreina Mancini)
Fotografare una scultura di Michelangelo è un’esperienza unica. Che si tratti di un’opera finita come la Pietà di Roma, o di un lavoro incompiuto come lo Schiavo dell’Accademia, c’è una tensione inconfondibile nel modo in cui le forme fluiscono e si increspano attraverso, intorno e dentro la figura.
Con luci che mettono in risalto le vibrazioni delle superfici e la forza delle curve e dei piani presenti ovunque la mano di Michelangelo ha toccato il materiale, non c’è limite al numero di belle fotografie che si possono scattare di una singola opera. Questo vale per il suo bozzetto più piccolo come per una scultura monumentale come il David.
Quando ho saputo della scoperta del modello, ho pensato che la mia macchina fotografica avrebbe potuto contribuire a determinare l’autenticità dell’opera. Prima di iniziare, Frederick Hartt, che aveva studiato l’opera con grande attenzione, mi dette un’immagine diagrammatica della scultura indicando le sezioni che riteneva dovessi fotografare.
E’ stato coperto ogni centimetro della superficie, vista da ogni angolazione possibile. Lo ha fatto con una certa esitazione, dato che avevamo già collaborato a dei libri tra cui le Tre Pietà di Michelangelo, e sapeva che non mi piaceva che mi venisse detto come fotografare un’opera d’arte.
L’avventura di fare le proprie scoperte è ciò che rende l’arte della fotografia un atto creativo e gratificante. Ma Frederick Hartt era così affascinato dall’oggetto che voleva essere sicuro che includessi tutto ciò che avrei potuto trovare.
Poiché l’opera non era più grande di una mano, il suggerimento di fare così tanti primi piani mi mise in ansia. Temevo di ritrovarmi con una serie di dettagli archeologici descrittivi piuttosto che con fotografie rivelatrici. Ma quando misi a fuoco i miei obiettivi sul modello e iniziai a scattare Polaroid di prova, non riuscii a trattenermi.
Le forme erano magnifiche, pari per monumentalità e pura bellezza alla più bella scultura che avessi mai fotografato e, almeno ai miei occhi, allo stesso livello delle opere universalmente riconosciute di Michelangelo.
Senza la versatilità e la eccellente qualità della mia Hasselblad 500C, insieme a un robusto treppiede, non sarei mai stato in grado di fotografare l’opera e di mostrarne tutti gli straordinari dettagli. Sebbene utilizzi sempre il mio obiettivo da 80 mm per le riprese totali, le fotografie più interessanti sono state scattate con un obiettivo da 250 mm.
Ho utilizzato anche lenti Proxar per una ulteriore messa a fuoco ravvicinata. La pellicola a colori che ho utilizzato è EPY-120 (ASA 60), mentre quella in bianco e nero è TRI-X 120 (ASA 400).
Avevo due lampade da 600 watt con alette che mi permettevano di controllare le luci sulla scultura. Con quattro caricatori per la mia macchina fotografica (di solito due pieni di pellicole a colori e due di bianco e nero), ero in grado di lavorare intensamente per minuti e minuti, fermandomi solo ogni tanto per riempire i caricatori.
Le esposizioni erano solitamente di due, quattro e otto secondi per le riprese a colori, con aperture di f16 o f2, e esposizioni proporzionalmente più brevi e aperture più piccole per il bianco e nero. L’esposimetro Sekonic Digi-spot (L-488) è stato la mia guida indispensabile e il retro della mia Hasselblad Polaroid la chiave per testare l’illuminazione e l’esposizione, nonché il posizionamento dei dettagli in ogni fotogramma.
Avevo specificato in anticipo che volevo essere in grado di fotografare la scultura liberamente da tutti i lati, e mi era stato progettato un ingegnoso marchingegno con aste di metallo che si estendevano da un supporto verticale di legno.
Sulle aste erano stati applicati dei manicotti di gomma per evitare qualsiasi danno alla scultura e le aste erano state posizionate in modo da adattarsi alla configurazione della scultura e farla fluttuare liberamente e in sicurezza nello spazio.
Ho potuto lavorare in una stanza completamente buia, solo con le mie luci controllate che illuminavano la scultura, e ho trascorso molte ore a fotografare in quelle che si sono rivelate essere le condizioni ideali.
Ho fotografato le sculture di Michelangelo per più di vent’anni e so bene che il modo in cui la luce cade sulle sue splendide forme può influenzare la nostra percezione di esse.
Fig. 18
In una serie di fotografie che ho scattato in precedenza, le lumeggiature sulle ginocchia di Cristo (vedi figura 18) nella Pietà Rondanini, a volte accostate a quelle del braccio che alla fine sarebbe stato rimosso, creavano un effetto come di fiamme che si alzavano nell’aria.
Quasi sempre trovo sfumature mozzafiato nelle immagini dei torsi di Michelangelo, con le loro meravigliose sporgenze e le loro cavità. Per me, la visione laterale del modello appena scoperto, con la luce che sfiorava i muscoli tesi del ventre e del torace, è stata una rivelazione (figura 75).
Fig. 75
Non era una firma, né un’impronta digitale (come quella che Frederick Hartt e io abbiamo scoperto in uno dei bozzetti di Michelangelo a Casa Buonarroti), ma era quanto di più vicino io abbia potuto fare come fotografo per riconoscere la mano del maestro. Era una qualità, pensai, che non poteva essere copiata o imitata.
Purtroppo non ho potuto illuminare il David con la stessa libertà del modello e quindi non ho potuto confrontare esattamente tutte le varie forme. Ma questo, in fondo, non era il mio scopo.
Il mio scopo era quello di rappresentare in due dimensioni gli scorci più avvincenti di questa straordinaria opera tridimensionale, che potevo scoprire con la mia macchina fotografica.
Se quello che stavo fotografando mi ha colpito come un capolavoro, la mia sfida è stata quella di produrre immagini che rendessero le qualità di quel capolavoro. Spero che alcune delle fotografie contenute in questo libro riescano a raggiungere questo obiettivo.
Come anticipato, ho seguito lo spirito dei suggerimenti diagrammatici di Frederick Hartt quando ho fotografato il modello e ho fatto scattare l’otturatore ogni volta che ho trovato qualche meravigliosa combinazione di forme.
Ho scattato più rullini di quanto abbia mai fatto prima con un’opera d’arte di queste dimensioni. È sempre uno shock quando le persone guardano le fotografie del modello e poi scoprono quanto in realtà esso sia piccolo.
Ha una monumentalità che smentisce le sue dimensioni, e parte dell’emozione di fotografarlo è stata quella di usare obiettivi ravvicinati e vedere la figura in grande scala come lo scultore stesso deve averla immaginata.
Oggi non è raro che gli scultori realizzino piccoli modelli di opere importanti e li facciano ingrandire fotograficamente fino alle dimensioni giuste per vedere come appariranno.
Michelangelo non aveva il vantaggio di una macchina fotografica per aiutarlo, ma credo che le fotografie ingrandite di questo bozzetto siano l’eco di ciò che aveva in mente.
Credo che la monumentalità del David diventi più accessibile potendo vedere questi dettagli di quella che, a mio parere, è la versione originale di una delle più grandi opere di Michelangelo.
David Finn