MOSTRA DI CAPOLAVORI SALVATI DALLA GUERRA
di Attilio Podestà
da Emporium, Volume CVI
Anno 1947
La seconda mostra di opere d’arte restaurate, riunite a quelle della prima, tenuta aperta dato l’interesse eccezionale dei problemi di restauro proposti e illustrati al pubblico dalla Soprintendenza alle Gallerie di Firenze, è stata completata e arricchita con l’esposizione di un gruppo di capolavori che durante la guerra hanno trovato ricovero nella capitale toscana dal contado fiorentino e dalle provincie di Arezzo e Pistoia. Un complesso di opere quasi senza eccezione di grandissimo valore artistico come afferma, a ragion veduta, l’ottimo catalogo compilato dall’ordinatore dott. Procacci.
Opere, in genere, le più note alla critica, ma in non pochi casi pezzi inediti o pressoché sconosciuti. Intorno al Polittico pierfrancescano di Borgo San Sepolcro, capolavoro della giovinezza del maestro, in cui appaiono in altissimi particolari gli elementi della sua evoluzione, della sua posteriore, suprema e mai più raggiunta sintesi di forma e colore, erano radunati quadri e sculture « che potrebbero essere fulgide gemme dei più celebri musei del mondo »: Cimabue, Taddeo Gaddi, Ambrogio e Pietro Lorenzetti, Lorenzo Monaco, Masolino, l’Angelico, Paolo Uccello, Filippo Lippi, il Sassetta, Matteo di Giovanni, il Signorelli, Bartolomeo della Gatta, il Pontormo, Agnolo Bronzino, fra i pittori; Tino di Camaino, il Ghiberti, Luca della Robbia, Antonio e Bernardo Rossellino, Mino da Fiesole, il Giambologna, fra gli scultori. Aggiungi le opere della prima mostra del restauro, al pianterreno della Galleria dell’Accademia dove l’intera esposizione è stata ordinata, opere (già ampiamente illustrate in queste colonne) di Donatello, Botticini, Maestro della Maddalena, Maestro della Crocifissione della Collezione Grigg, Cosimo Rosselli, Beato Angelico, Bicci di Lorenzo, Masolino, Starnina, Filippino Lippi, Masaccio, ecc. L’avvenimento ha assunto così un piano di qualità e un significato di cultura che hanno pochi riscontri in altre manifestazioni del genere, anche se più ampie e più suggestive.
La mostra delle opere ricoverate a Firenze era aperta da un gruppo di sculture: un bassorilievo in terracotta invetriata del Sansovino; tre statue lignee di ignoto trecentesco; una Madonna col Bambino di Tino di Camaino (l’attribuzione è di Ragghianti ed è giustificata dalle particolari sintesi plastiche, a masse larghe e ferme, pur con qualche decisa schematizzazione): un San Michele di quel Guido Bigarelli da Como che devia verso accademiche eleganze decorative il corso ormai declinante della scultura romanica toscana; una formella proveniente dalla Pieve di Arezzo e data a Giovanni d’Agostino dal Cohn Goerke che, come è noto, sta conducendo un approfondito studio su questo scultore a cui ormai la critica riconosce il merito di essere uno dei più genuini rappresentanti del gusto senese trecentesco, secondo elementi espressivi derivati direttamente dalla pittura, fuori del campo strettamente plastico tradizionale. La formella con il Battesimo di Cristo, che si inserirebbe così, come opera giovanile, nel modesto gruppo di sculture che si possono attribuire a Giovanni di Agostino, assume per gli studiosi un interesse particolare, aiutando a individuare, con la sua raffinatezza un poco manierata e quasi consunta, i caratteri stilistici, plasticamente elusivi, ma di originale e pungente fantasia, che informano la sua visione; novità, ha affermato il Carli, uno dei più acuti studiosi dello scultore senese, « da non trovare assolutamente riscontro in tutta la scultura del secolo » e che « inseriscono un timbro di eccezionale grazia ed acutezza nel plasticismo gotico posteriore a Giovanni Pisano ». Bernardo e Antonio Rossellino, esprimenti la maturità rinascimentale con precorrimenti già cinquecenteschi, erano rappresentati con opere importanti: l’Annunciazione di Bernardo e il S.Sebastiano, del Museo della Collegiata empolese, considerato il capolavoro di Antonio. Ma nel campo della scultura, per i problemi critici proposti, l’interesse maggiore della mostra era dato dal gruppo di opere dei della Robbia, o ai della Robbia attribuite. Le terrecotte di Luca per la Cappella del Sacramento della Chiesa dell’ Impruneta, che avevano subito gravi danni per eventi bellici, sono state esposte come esempio dei magistrali restauri in esecuzione. Il grande bassorilievo in marmo della stessa chiesa, trascurato dalla critica (e in genere dato a scolari di Donatello), anche a causa della scarsa visibilità, perché ricoperto dal gradino dell’altare, resosi ora possibile un esame diretto ed approfondito è stato giustificatamente dato a Luca. Mentre il notissimo gruppo della Visitazione della Chiesa di S. Giovanni fuorcivitas di Pistoia, creduto da molti di Luca o di Andrea, appare più tardo per i suoi caratteri stilistici: da annoverarsi, anzi, come propone Procacci, (sulla scorta di un’ipotesi antica del Bacci), « quale opera già del pieno Cinquecento, non priva di alcune debolezze formali ».
La sezione della pittura era aperta dal nome di Cimabue, il grande precursore. L’attribuzione del Crocifisso di S. Domenico di Arezzo, fatta dal Toesca, è ormai pressoché universalmente accettata e considerata come uno dei caposaldi per lo studio della formazione del maestro all’inizio della sua attività, dopo la collaborazione ai mosaici della cupola del Battistero di Firenze. Le antiche ascrizioni non appaiono accettabili, rilevandosi in questo drammatico Crocifisso gli elementi di una nuova diretta espressività plastica: « la linea si libera da ogni residuo grafismo ed articola unitariamente la forma, trascinandola in un’unica iperbolica curva » (Savini). Intorno a Cimabue erano la grande tavola proveniente da Figline Valdarno di quell’anonimo maestro fiorentino, chiamato appunto Maestro di Figline, la cui attività venne recentemente ricostruita dal povero Graziani e il Polittico della Chiesa pistoiese di S.Giovanni fuorcivitas, una delle opere più vastamente illustrate e commentate di Taddeo Gaddi per le caratteristiche che compiutamente esprimono il peculiare linearismo di questo stretto seguace di Giotto. L’inedito Angiolo esposto del veneto Guariento fa parte della serie di tavole che un tempo ornavano la cappella della reggia dei Carraresi a Padova e che rivelano un’influenza piuttosto esteriore di Giotto sul fondo ancora arcaicamente bizantino, con risultati di unitaria grazia decorativa. Tra le tavole di scuola senese erano esposti: un trittico duccesco di notevole qualità e che potrebbe essere della bottega del maestro; i comparti laterali e la cimasa del Crocifisso della Badia aretina di S. Fiora e Lucilla, da assegnarsi ad un periodo intermedio nell’attività di Segna di Bonaventura, manierato continuatore dello stile di Duccio; una delle più alte e quasi morbosamente drammatiche creazioni di Pietro Lorenzetti, il Polittico dipinto nella maturità dell’artista per il Vescovo Tarlati di Arezzo ed ora nella Pieve di quella città; la famosa Madonna di Vico l’Abate, la prima opera datata di Ambrogio Lorenzetti che pur con i ritocchi e i guasti conserva l’altissima suggestione della magia spaziale e plastica del grande pittore senese; un anonimo della prima metà del XIV secolo; un ignoto seguace di Guido da Siena.
Dominavano la mostra le opere appartenenti al Quattrocento toscano. Per un vero privilegio si è potuto ammirare da vicino e in piena luce il Polittico con la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca, così fuori mano a Borgo San Sepolcro. Come è noto il polittico rivela l’aiuto di un collaboratore nelle parti secondarie e precisamente, secondo la critica più avveduta, nella predella e nei pilastrini. Collaboratore che è stato dal Salmi identificato con Giuliano Amedei, un « eclettico di educazione fiorentina », prima miniatore a Firenze e poi pittore favorito di Paolo II a Roma e, in complesso, « un mediocre che non ha compreso l’alto insegnamento di Piero ». La concezione generale e in gran parte anche le strutture sono dovute a Piero: mentre la traduzione pittorica giunge, a momenti, alla stanchezza o all’inanimato irrigidimento. Ma nelle parti principali, come nella monumentale figura della Madonna e nella Crocefissione, il linguaggio di Piero tocca ormai la sua più sublime astrazione. Nel prodigioso panorama della pittura fiorentina del tempo anche i pittori minori concorrono a chiarire un clima; di non mediocre interesse in questo senso, per esempio, le opere presentate dei tre pittori della dinastia dei Bicci, dal capostipite Lorenzo di Bicci, al figlio Bicci di Lorenzo, modesto, tutt’altro che raffinato continuatore del gusto trecentesco, di cui è stata fatta conoscere una tavola inedita, proveniente dalla chiesa empolese di S. Agostino, al figlio di questi, Neri di Bicci, che si è creata una maniera facilmente individuabile, prendendo un po’ da tutti i maestri suoi contemporanei. Le tre opere esposte di Lorenzo Monaco — che all’inizio del secolo sentì le esigenze della nuova visione rinascimentale in drammatico contrasto al mondo gotico da cui derivava, risolvendole in austere semplificazioni e spasmodica tensione lineare — propongono problemi attributivi non ancora del tutto risolti. Infatti se il Trittico della Collegiata di Empoli, per la raffinatezza degli accordi coloristici e la viva grazia lineare, appare sicuramente autografo, il dubbio rimane, data la minore intensità, per la Madonnina e le due ali di trittico con quattro santi. L’attribuzione all’Angelico della tavola con l’Annunciazione della chiesa di S. Francesco a Montecarlo nel Valdarno, è stata unanimemente riconfermata (ricordiamo tra i particolari più belli la purissima Visitazione nella predella).
Pure unanimemente riconfermata l’attribuzione a Filippo Lippi della Madonna in trono, il Bambino, Santi e Angioli della Collegiata di Empoli, che un tempo era stata data a Masolino, al Pesellino e ad anonimo. L’evidente influenza masaccesca pone la tavola nel periodo iniziale dell’attività del Lippi, quando questi, novizio nel convento del Carmine, vedeva il Masaccio dipingere i suoi famosi affreschi. Il « nuovo valore costruttivo della forma » (Gengaro), che Matteo di Giovanni introduce sul tenace fondo tradizionale dell’arte senese, è evidente nelle parti laterali e nella predella del Polittico di Sansepolcro, di un periodo ancora abbastanza giovanile: ma i caratteri della maturità di Matteo, le soluzioni ad intarsio in piano di questo nuovo valore costruttivo, le raffinatezze cromatiche e il particolare tono del sentimento, si dichiarano nel ricco e prezioso apparato dell’Assunzione della Madonna e Santi della Chiesa dei Servi a Sansepolcro. Il chiaro colorismo e la singolare luminosità atmosferica di Masolino dominano gli accenti tuttavia masacceschi della tavola con S. Giuliano della Chiesa di S. Giuliano a Settimo. L’attribuzione a Paolo Uccello della predella con S. Giovanni in Patmos, l’Adorazione dei Magi e due Santi inginocchiati, non può essere accettata se non con riserva, per una certa frammentarietà della visione formale. Notevole per fresca eleganza decorativa la Madonna data al «Maestro del bambino vispo». Le due tavole con S. Rocco sono tra le prime opere conosciute di Bartolomeo della Gatta, in cui il ricordo di Piero si addolcisce per altri influssi fiorentini. Lo stendardo del Museo di Sansepolcro è considerato ormai generalmente come opera tarda del Signorelli.
Per quanto riguarda il Cinquecento, l’esposizione dei tondi con Evangelisti di S. Felicita in Firenze (tre del Pontormo ed uno del Bronzino, in questo caso vicino alla maniera pontormesca) consente un esauriente esame di queste tavole ancora di « dureriana tensione disegnativa » (Becherucci) e di dinamica torsione volumetrica, modi superati nelle altre parti della decorazione della stessa cappella Capponi in S.Felicita.
Il secondo gruppo di opere restaurate — esposte con lo stesso criterio didattico della prima mostra — presentava casi di particolare importanza e di un interesse vivo anche per il pubblico. Procacci richiama l’attenzione sul difficile lavoro eseguito a due famosissimi bronzi, il Mercurio del Giambologna e l’urna dei SS. Proto, Giacinto e Nemesio del Ghiberti. Per il Mercurio si dovette rimediare, con una complessa operazione, alle imperfezioni della fusione che si erano col tempo aggravate. L’urna ghibertiana, trafugata alla fine del secolo XVIII e spezzata per essere venduta come metallo, era stata al principio del secolo scorso messa insieme alla meglio con arbitrari rifacimenti; si è dovuto scomporla nei suoi più che duecento frammenti, annullando le depressioni provocate dai colpi e ricomporla su supporti metallici, fino a raggiungere l’aspetto originale, tranne che per la parte posteriore mancante. Ambedue i lavori sono stati eseguiti sotto la direzione del dott. Rossi. La notissima acquasantiera di S. Giovanni fuorcivitas di Pistoia, opera giovanile di Giovanni Pisano, è stata liberata dal cerchio di ferro che recingeva il fusto rotto in alto, con « un lungo e difficile lavoro per far gravare il peso della vasca solo sopra un grosso pernio messo al centro della scultura, invece che su tutto il fusto » (Procacci). Per quanto riguarda i dipinti, l’affresco con l’Apparizione della Vergine di Bartolomeo della Gatta, distaccato a strappo dalla loggetta rimasta in piedi nella distruzione della Chiesa di S. Bernardo ad Arezzo, ha rivelato, dopo una completa ripulitura, particolari che lo fanno considerare come una delle cose più belle dipinte dall’artista. Con la tavola del Sassetta (Polittico con la Madonna e quattro Santi di S. Domenico di Cortona), parallelamente al Trittico dell’Angelico della stessa chiesa, esposto alla prima mostra, si è dato un altro magnifico esempio di ricupero di un’opera d’arte sul punto di perdersi. A questo dipinto, col legno tarlato e infracidito dall’umidità e l’imprimitura in disgregazione, è stato necessario eseguire l’operazione più difficile di restauro: il trasporto della sola pellicola del colore. La fase più pericolosa del restauro è ormai quasi compiuta, con la messa a nudo della pellicola del colore dalla parte a tergo. Resta da collocare il sottilissimo strato del colore originale su un nuovo supporto. Mentre l’Angelico compone a colori compatti e quindi non lascia scorgere a tergo la modellazione, il Sassetta, « nell’incarnato, modella le forme fin dal principio » (Procacci); la visione a tergo presenta quindi pressoché la stessa importanza di quella anteriore.
Attilio Podestà