Il Mondo della Fotografia Angelo Lomeo,Sonja Bullaty Circle of Seasons di Sonja Bullaty e Angelo Lomeo

Circle of Seasons di Sonja Bullaty e Angelo Lomeo

 

Circle of Seasons

Central Park Celebrated

Fotografie di Sonja Bullaty e Angelo Lomeo

The Amaryllis Press, New York

1984

(Traduzione di Andreina Mancini)

 


 

 

RINGRAZIAMENTI

di Sonja e Angelo

Quanto dà gioia, quanto fa la differenza osservare i boccioli che si schiudono in primavera, scoprire un narciso che spunta dal terriccio, sentire un uccello che canta e percepire l’erba morbida sotto i nostri piedi.

Andiamo al Parco per questi momenti, per vedere la meraviglia di un cambiamento continuo. Qui nel Parco c’è armonia tra le persone e la natura. Ed è questo che vogliamo esprimere nel nostro linguaggio – la fotografia.

È possibile vivere senza alberi e senza erba. Alcuni di noi hanno sperimentato questa assenza. Questo libro è il nostro omaggio a coloro che hanno intuito il grande bisogno di un luogo verde nel cuore della città e a coloro che hanno progettato questo pezzo di terra in modo che rispecchiasse il mondo della natura. Amiamo il Parco perché ha la forza di rinnovarsi nonostante incredibili difficoltà.

Questo è il nostro omaggio a Central Park. Qui noi possiamo rinnovare il nostro spirito, con la certezza che il ciclo della vita continua e che la primavera tornerà.

Questo libro è per tutti coloro – passati, presenti e futuri – che amano la natura e per tutti coloro che amano Central Park.

Grazie ai nostri amici che sono stati pazienti con noi e che continuano a incoraggiarci. Grazie a tutti coloro che, in ruoli ufficiali o non ufficiali, aiutano Central Park a prosperare.

Un ringraziamento molto speciale va a   – editore e curatore di questo libro di fotografie, realizzate nel corso di molti anni – che, come noi, ama Central Park.

Nel 1980 ci chiese di fotografare l’arrivo della primavera nel parco per una mostra speciale presso la CITYANA Gallery di New York. Ora ha svolto un ruolo fondamentale nella pubblicazione del nostro lavoro, coadiuvato da un team meraviglioso: a tutti loro siamo profondamente grati.

E a Central Park grazie di esistere.

 

Angelo Lomeo e Sonja Bullaty


 

Sonja Bullaty, abbeveratoio nel Central Park

 

 

INTRODUZIONE

di J.Tevere MacFadyen

 

I parchi sono tra i luoghi più umani. Ci possiamo andare per rilassarci, divertirci ed essere circondati dalle forme sensuali della natura. Nel loro momento migliore, i parchi cittadini sono espressioni gioiose della civiltà – un meraviglioso connubio tra natura, persone e città. La città è presente in questo libro, anche se in posizione subordinata. Quanto alle persone, esse per lo più sono dietro, non davanti alla macchina fotografica: testimoni dello spettacolo grandioso della natura, dell’alternarsi delle stagioni, come la primavera, l’autunno, l’inverno (e, per completare il cerchio, la primavera. Rinnovamento) giocano la loro partita sui magici ettari di Central Park.

La natura sembra dominare in questo libro e occupa il centro della scena, come è giusto che sia, perché senza di essa non ci sarebbe Central Park. In questo parco, un trionfo di design pluralistico, una straordinaria diversità di vegetazione è resa ancora più meravigliosa da una serie di paesaggi radicalmente differenti.

La natura sembra dominare.

Il fatto è che ogni albero, cespuglio e filo d’erba è lì per gentile concessione dell’uomo. Qui, mani amorevoli hanno incoraggiato e orchestrato la natura per il piacere e la gioia di milioni di persone.

Come reagisce la gente al Parco? Il dato statistico che l’incidenza delle azioni antisociali nel Parco sia estremamente bassa è sotto gli occhi di tutti: il fatto che, salvo rare eccezioni, i fiori non vengano colti, gli alberi siano privi di graffiti, il Parco funzioni e queste fotografie abbiano potuto essere scattate, è un chiaro segnale del fatto che la stragrande maggioranza dei visitatori del Parco rispetta profondamente questa meravigliosa creazione.

Un’adeguata vigilanza, così come una corretta supervisione e manutenzione pubblica, sono essenziali per la conservazione del Central Park. Ma ciò che fa prosperare la natura e i paesaggi sono la comprensione, l’apprezzamento e l’amore.

In Circle of Seasons l’arte di Sonja Bullaty e Angelo Lomeo ritrae la natura e i paesaggi, racconta l’alternarsi delle stagioni e celebra i milioni di persone che godono del parco e coloro che si prendono amorevolmente cura di questo tesoro.

La zona meno conosciuta e più selvaggia di Central Park è quella terza parte del suo territorio che si trova a nord. Anche negli assolati pomeriggi estivi, qui non c’è la folla di passeggini che c’è più a sud. A nord della 96a Strada il terreno è più accidentato, i pendii più ripidi, i boschi più fitti che altrove nel parco. Qui c’è un ruscello, un canale limaccioso, lento e serpeggiante che collega due laghetti. Il ruscello è circondato da file di salici, mentre il terreno più secco delle colline adiacenti ospita una grande varietà di alberi. Il ruscello si è ridotto a un rivolo, il suo letto poco profondo è costellato di pozzanghere e ristagni d’acqua e delimitato da grandi massi e affioramenti di roccia. Seguendolo in una mattina di inizio aprile, Sonja Bullaty e Angelo Lomeo documentano l’arrivo della primavera. In questo posto c’è una tale straordinaria quiete che per un istante è come se il resto della città fosse scomparso.

Ma ovviamente non è così. Anche nel suo limite settentrionale, Central Park invita New York ad entrare. “Una volta stavo camminando nel parco”, racconta Angelo, “in questo fitto intreccio di rami e di alberi. Era primavera, c’era una magnolia in boccio e tutto aveva un’atmosfera da Jackson Pollock. Poi all’improvviso ho visto attraverso gli alberi quelle torri gemelle. È questo che sembra così sorprendente, che qui si possa avere una tale sensazione della natura e contemporaneamente la sensazione della città intorno”.

Sonja Bullaty e Angelo Lomeo possono tranquillamente passare ore e ore a esplorare qualunque percorso di Central Park, affascinati dai colori, dalle trame, dalle strane somiglianze o sovrapposizioni e, soprattutto, dalla luce. Un sentiero pedonale in una gelida mattina di fine autunno è una sinfonia di oscurità e di luce, con colori quasi monocromatici. Ecco un lampione abbracciato da fiori di magnolia. Qui c’è un narciso solitario strappato dal suo letto e gettato in mezzo a vecchi giornali; una barca a remi semisommersa che fa da cornice a una macchia piatta sulla superficie di uno stagno increspato dal vento; un giovane viticcio frondoso che si insinua fra le stecche scrostate e dipinte di rosso di una panchina del parco.

Ecco la città riflessa dal Parco, uno skyline catturato mentre luccica nell’acqua splendente, e il Parco che si ripiega su se stesso grazie a una lastra di vetro a specchio.

Bullaty e Lomeo si sono guadagnati  da vivere come fotografi per più di trent’anni, attraversando l’Europa e il Nord America per accumulare un patrimonio fotografico praticamente infinito. Eppure ogni volta tornano a quello che è essenzialmente il loro cortile di casa. Sembrano inesorabilmente attratti, come i salmoni al torrente in cui sono stati generati, verso questo rettangolo rurale incongruamente ricavato nel centro della città. In un senso molto concreto, e soprattutto in primavera, tornano a casa in Central Park.

Sonja si arresta bruscamente,  alza la macchina fotografica e osserva quasi con titubanza nel mirino. “Guarda come spuntano le foglie”, dice. ” Una settimana fa questo verde non c’era”. Lei e Angelo sono affascinati dall’ atmosfera dei luoghi, soprattutto dall’effetto della luce che cambia. Escono spesso con la pioggia, perché le superfici impregnate d’acqua sembrano intensificare i colori, facendo emergere toni più scuri e più ricchi. Abbassando per un attimo la macchina fotografica, Sonja ora persuade un alberello recalcitrante a uscire dall’inquadratura, poi torna nella posizione di prima e riprende in mano la macchina fotografica. “Non credo che oggi andremo molto lontano”, ammette. “Mi piace stare qui”.

Angelo si è lamentato del fatto che camminando nel parco con Sonja raramente riescono a raggiungere la meta perché lei si ferma continuamente durante il tragitto. Questo è indubbiamente vero, ma lui non è da meno. Proprio ora ha abbandonato il sentiero lastricato dirigendosi verso l’argine del ruscello, facendosi strada tra le rocce, soffermandosi di tanto in tanto a osservare il gioco di luci e ombre attraverso gli alberi. Angelo ama moltissimo gli alberi.  “Quando ero piccolo”, mi disse una volta, “mio zio mi portava a Central Park e uno dei miei ricordi più belli è quando ho scoperto un enorme gelso su cui potevo arrampicarmi e restare appollaiato. Quando le bacche erano mature, mi sedevo su quell’albero per ore a mangiare gelsi. Quello fu l’inizio del mio amore per gli alberi”.

Fin da bambino ha cominciato a disegnare alberi e da allora li ha fotografati per gran parte della sua vita di adulto. “Gli alberi sono quelli che più spesso catturano la mia attenzione”, dice Angelo, “amo le loro forme, il groviglio di rami e ramoscelli”. Ora, dalla riva opposta del torrente, dice: “Questa è davvero una foresta. Questa è una delle cose che mi piacciono di più del Parco. Se scendete dalla vostra auto da qualche parte nel nord e vi addentrate nel bosco, questo sarebbe il paesaggio, non sapreste mai di essere a New York”.

Il principale architetto del parco ne sarebbe stato soddisfatto. “In pratica, ciò che più desideriamo è semplicemente uno spazio aperto di verde con una superficie adeguata e un numero sufficiente di alberi per offrire una varietà di luce e ombra”, scrisse Frederick Law Olmsted. “Questo è ciò che vogliamo come elemento centrale.  Vogliamo un bosco abbastanza fitto, non solo per assicurare il nostro comfort nella stagione calda, ma anche per escludere completamente la città dalla nostra visuale”. Se Olmsted non è riuscito a realizzare pienamente quest’ultimo obiettivo, forse va bene ugualmente. Una delle caratteristiche più interessanti di Central Park è l’interazione che esso favorisce tra l’ambiente urbano e quello naturale.

La città è raramente assente dal parco, e si potrebbe persino affermare che la presenza del sipario di vetro e di acciaio del Citicorp Center, che sporge dalla chioma frondosa della foresta, offra un contributo essenziale al carattere del parco. Sonja ha detto, alzando gli occhi da un letto di narcisi in fiore: “Amo come la città spunta tra i fiori”.

I due fotografi proseguono verso nord-est attraverso The Loch, costeggiando il North Meadow, salendo per una ripida parete di The Mount e scendendo dall’altra, diretti infine ai formali Conservatory Gardens sul lato orientale del parco. Non hanno fretta. L’urgenza, infatti, sembra del tutto fuori questione. Per Bullaty e Lomeo, Central Park non è un luogo da attraversare di fretta. È un luogo in cui si può essere intercettati, trattenuti, in cui perdersi volutamente. In questo, Sonja e Angelo sono esperti. “Dobbiamo tenere gli occhi aperti o ci perdiamo di vista”, ammette Sonja. Sono talmente assorbiti da ciò che stanno guardando che si allontanano senza rendersene conto, per poi scoprire tardivamente che il partner è andato in un’altra direzione.

Angelo racconta un sogno in cui si sveglia da una notte di riposo e trova Central Park inspiegabilmente scomparso, spianato e ricoperto di edifici. “Che incubo”, dice. “Riesci a immaginarlo?” Manhattan senza Central Park è semplicemente inconcepibile. Fin dall’inizio, il parco è sembrato parte integrante di New York. Non è, come alcuni parchi pubblici, un monumento imposto consapevolmente alla città. Piuttosto, esso è intrecciato in modo inestricabile nel tessuto metropolitano, nello stesso tempo ne è una parte ed è a parte, offrendo facilità di accesso come di fuga. Questo non è il risultato di un caso fortuito, ma di un progetto voluto. Il Parco, con tutto il suo effetto “naturalistico”, è prima di tutto un capolavoro di pianificazione. Si pensi alle strade trasversali. Era inevitabile che, nel destinare a spazi aperti centocinquantatre isolati del centro, si dovesse trovare una qualche soluzione per far transitare il traffico all’interno. La soluzione di Olmsted, di una semplicità disarmante, fu quella di costruire quattro arterie est-ovest che corrono per la maggior parte della loro lunghezza sotto il livello del suolo. In questo modo, affrontando l’inevitabile, Olmsted coniugò la funzione con la forma. In pratica, questo permette un flusso costante ed efficiente di veicoli attraverso il parco, senza strisce pedonali o semafori che li rallentano. Concettualmente, lascia l’intero paesaggio del parco visivamente indisturbato a livello superficiale, consentendo al passante non solo di camminare senza ostacoli dalla 59a alla 110a strada ma, in un senso molto concreto, rendendo possibile a Sonja e Angelo di scattare le fotografie di questo libro. Se invece i percorsi trasversali fossero stati collocati in superficie, il parco sarebbe stato sicuramente balcanizzato, spezzato a tutti gli effetti in cinque isole separate. L’importanza di queste decisioni può essere  difficilmente sopravvalutata, eppure adesso, come molte altre cose riguardanti il parco, le diamo per scontate.

Il parco è un’espressione tangibile dei principi pluralisti di Olmsted, il suo progetto è una disorganizzazione organizzata. Il trionfo di Olmsted è il suo straordinario ibrido, una sintesi di elementi formali e naturali, di natura selvaggia e di giardino, di città e di fattoria. Lungi dal richiamarsi ai grandi parchi urbani europei, il progetto del parco fece un coraggioso passo avanti. Si scontrò con le regole consolidate e gettò le basi di una tradizione propria, che da allora è stata ampiamente emulata.

Central Park rappresentava un’integrazione assoluta della natura nel centro urbano, mai vista prima. Questa sintesi, e il parco in cui si era manifestato per la prima volta, si sarebbero dimostrati più influenti, più duraturi e più cruciali per la vita di New York e di altre città di quanto persino i suoi abili progettisti potessero prevedere.

Ma prima doveva essere costruito. La costruzione di Central Park, al culmine dei lavori, impiegò circa tremilacinquecento uomini. Tra il 1858 e il 1873 furono scavati dal sito cinque milioni di metri cubi di terra, pietra e detriti – dieci milioni di carri con cavallo. Nel 1865, era stato ricollocato più di mezzo milione di metri cubi di terriccio fresco. Furono posati sessantadue chilometri di canali di scolo. Furono spostati massi enormi da un luogo all’altro, i corsi d’acqua furono deviati e le paludi drenate e riempite. Niente di tutto questo fu facile o economico. Il costo della fedeltà di Olmsted alle forme naturali fu estremamente elevato, rendendo la costruzione del Parco molto più costosa di quanto sarebbe stato se avesse semplicemente livellato il terreno, accorciato e raddrizzato i sentieri e piantato il tutto in modo da conformarsi a uno schema rigido.

Il primo nuovo albero del parco fu piantato il 17 ottobre 1858. Nei dodici mesi successivi ne furono piantati altri 17.300. Solo nel 1862 furono collocati 74.730 alberi. All’inizio delle potature, un’indagine sul sito identificò quarantadue specie di alberi. Nel 1876, quando i lavori del parco furono sostanzialmente completati, quasi millecinquecento varietà di alberi, arbusti, viti e piante perenni crescevano a Central Park, per un totale di circa cinque milioni di esemplari. Si tratta di un resoconto sommario, che tocca solo la logistica tecnica della costruzione. Il fatto che Olmsted si sia dimesso o sia stato licenziato e riassunto almeno cinque volte prima di lasciare definitivamente l’incarico nel 1878, dà un’idea della gestione labirintica coinvolta nel progetto. Il merito va riconosciuto ai milioni di persone che hanno goduto e rispettato il parco e al piccolo ma appassionato gruppo di dipendenti e volontari che hanno lavorato per mantenerlo in vita. Central Park ha resistito anche all’incuria delle autorità e a generazioni di abusi volontari o involontari. Ha ceduto alcuni territori (al Metropolitan Museum of Art, per esempio, e agli zoo, alle piscine e alle piste di pattinaggio che Olmsted riteneva non potessero trovare posto nel parco) e ne ha riguadagnati alcuni (dall’Old Reservoir, svuotato nel 1929 per far posto al Great Lawn). Ha resistito, tra l’altro, a proposte per la costruzione di un ippodromo (1892), di una fiera mondiale (due volte, la prima nel 1891 e la seconda dieci anni dopo), di un grande teatro dell’opera (1919), di un paio di torri di trasmissione radiofonica (1923), di una stazione della metropolitana come monumento al transito sopraelevato (1955), di un vasto progetto abitativo (1964) e, più volte nel corso degli anni, di parcheggi sotterranei.

In passato, gran parte dell’architettura rustica ricca di dettagli di Calvert Vaux è caduta in rovina o in abbandono, anche se per fortuna il suo magnifico Bow Bridge è un’eccezione. Questa delicata campata serve sia agli escursionisti per attraversare il lago, sia per creare un elegante collegamento tra gli elementi costruiti e le forme naturali del parco. Attualmente sono in corso molti lavori di restauro e conservazione, e molti altri ponti e siti potrebbero finalmente ricevere l’attenzione necessaria. Molte delle piantumazioni originali di Olmsted, anche se non l’intero sottile approccio del suo piano generale, sono state stravolte dai suoi vari successori, ma il Parco è incredibilmente resiliente. Nello Sheep Meadow c’erano delle pecore già nel 1934 ed è possibile immaginarle lì ancora oggi. È ancora possibile perdersi completamente in The Ramble e i bambini rovesciano ancora le pietre nel Loch, sperando di catturare i gamberi che vi si nascondono. Le tortore nidificano vicino al Bridle Path e le oche canadesi che migrano verso sud interrompono il loro viaggio all’Harlem Meer. Central Park è una perenne resistente. È dotata di una robustezza radicata e di un talento per il rinnovamento reso splendidamente evidente dalle fotografie di questo libro.

Sonja Bullaty e Angelo Lomeo vivono a Central Park West, in un appartamento che si affaccia sul parco. È un luogo pulito e aperto, illuminato dal sole e pieno di vasi di piante. L’aspetto più sorprendente dell’appartamento sono le sue finestre – grandi, all’antica, con dei pannelli a manovella che si aprono al centro – e oltre le finestre, la vista, uno spettacolare panorama di Central Park.

Si erano conosciuti nel 1947, in una camera oscura a St. Mark’s Place nel Greenwich Village. Lui era il gestore e lei aveva preso in affitto uno spazio. Lui le portava le mele. “Adoro le mele”, ammette lei. Lui era newyorkese, lei era appena arrivata dalla Cecoslovacchia. Cominciarono a fotografare insieme quasi subito, e quasi subito cominciarono a scattare foto nel parco.

“Credo che Sonja abbia cominciato a fotografare il parco da quando è arrivata in questo Paese”, dice Angelo. “Ogni volta che siamo stati nel Parco la ricordo con una macchina fotografica”. Angelo, formatosi come artista commerciale, ma annoiato da questa professione, scelse la fotografia come alternativa artistica. Sonja aveva iniziato a fotografare da adolescente a Praga prima della guerra e in seguito aveva trascorso un anno come assistente del grande fotografo ceco Josef Sudek. Sudek era un artista intuitivo e la sua influenza su Sonja si era manifestata soprattutto attraverso il tipo di bellezza che era in grado di catturare sulla pellicola. “A Sudek, – Sonja immagina –  Central Park sarebbe piaciuto”.

Nel corso degli anni gran parte dell’arte di Bullaty e Lomeo ha riguardato il mondo naturale. Spiccano in particolare le loro numerose fotografie di alberi e fiori, ma non si considerano fotografi naturalisti. “Amo i cambiamenti”, spiega Sonja, “e la natura è cambiamento. La fotografia, per me, è un modo di mostrare cambiamento”.

Le fotografie di Angelo e Sonja non tanto ritraggono, quanto evocano, richiamando alla mente di chi le guarda una moltitudine di immagini ed emozioni. Una spruzzata di nuovi germogli su un ventaglio di rami nudi suggerisce l’universale anticipazione della primavera. Due semafori tamponati in un vago color cremisi sulla tela di una nevicata di febbraio sono l’essenza distillata dell’inverno stesso. Bullaty e Lomeo registrano il transitorio, il fugace, le stagioni sorprese sulla soglia del cambiamento. Hanno catturato l’anima di Central Park nel percorso di due viaggiatori attraverso il Great Lawn durante un’impetuosa tormenta di neve, nell’apparizione un po’ surreale di un taxi giallo cromo tra il ruggine e l’ocra dell’autunno, e in una mobilitazione effimera di fioriture. Come una bella trota catturata e liberata, le loro fotografie sono una celebrazione della libertà, della diversità e della gioia.

“Proprio quando si pensa che sia completamente selvaggio, c’è un sentiero e poi una panchina. Dice Sonja. “Hai la sensazione che fosse destino che andasse così”. È stato così. “Ogni metro di superficie del parco”, scrisse Olmsted, “ogni albero e ogni cespuglio, così come ogni arco, strada e passeggiata, è stato messo lì con uno scopo”. Esplorare la creazione di Olmsted in compagnia di Sonja Bullaty e Angelo Lomeo è un esercizio illuminante ed esaltante. Si distraggono facilmente e si lasciano tentare da deviazioni che sembrano possibili. (Sonja ripete una delle ingiunzioni di Sudek: “Affrettati lentamente”). “Quando esco in primavera sono sorpreso dalle piccole cose”, osserva Angelo. “Il Parco è composto da decine di scorci e si possono vedere da tante angolazioni”.

Ricorda, a mò di esempio, di essersi imbattuto in un grande banco di forsizia in piena fioritura, di un “giallo quasi smagliante” che, pur essendo spettacolare, non sembrava potersi risolvere in una fotografia. “Ero lì che guardavo la scena attraverso il mirino, quando un taxi è apparso proprio accanto alla forsizia e a quel punto ecco la composizione”. Angelo è un artista che prende le sue composizioni dove le trova. Se il giallo di un taxi di passaggio aggiunge qualcosa a quello del cespuglio in fiore, ben venga.

Né Sonja né Angelo possono essere accusati di essere puristi o sciovinisti visivi. Ascoltano con attenzione i canti degli uccelli e sanno identificare subito chi canta. Soprattutto Sonja si ferma spesso a toccare, sfiorando gli amenti caduti di un acero norvegese o facendo scorrere la punta delle dita sulla corteccia nodosa di un vecchio ciliegio, come se stesse leggendo in braille. Una volta, guardando delle fotografie, ha detto: “Vogliamo mostrare l’odore di Central Park”.

“Ieri siamo stati fuori nel parco fino a notte fonda a scattare foto”, annuncia Sonja una mattina mentre entro nell’appartamento. Nel soggiorno di Sonja e Angelo c’è un tavolo, proprio davanti alle grandi finestre, dove a volte i fotografi fanno colazione ammirando il panorama. Da qui, la fila di corridori che gira intorno al lago artificiale sembra una fila di insetti dai colori vivaci. La giornata è iniziata buia e nuvolosa, ma sembra che si stia schiarendo. Le nuvole si stanno disperdendo e di tanto in tanto si aprono dei varchi verso il laghetto sottostante. “Viviamo a New York per scelta”, dice Sonja, “perché qui ci piace moltissimo, ma devo ammettere che uno dei motivi per cui amo New York è che abbiamo la via di fuga della natura proprio qui davanti ai nostri occhi”.

”In primavera si ripresenta con una tale forza”, si meraviglia Angelo. “Non si sono mai viste così tante cose che germogliano, così tante fioriture. E’ davvero una visione dopo l’altra”. Questo senso di rinnovamento è fondamentale, perché è nel renderla disponibile alla gente della città, questa sequenza organica essenziale di vita, morte e rinascita, che il Parco sembra più prezioso e l’intuizione di Olmsted più evidente. “Senza rinnovamento c’è solo morte”, afferma Sonja. Per una persona la cui storia è stata così irrimediabilmente sfigurata dalla guerra, la fotografia sembra una vocazione particolarmente appropriata. Per Sonja, l’atto di fare fotografie rappresenta una scelta positiva, un impegno a preservare ciò che altrimenti potrebbe andare perduto. “Devi continuare a dimostrare a te stesso che la vita vale la pena di essere vissuta”, dice. “Sento che la mia fotografia, questa continua riaffermazione della vita e della bellezza, è in un certo senso la mia reazione all’esperienza del grande male.  Fotografando le cose che amo veramente, forse avrò fatto qualcosa su questa terra. Forse avrò fatto qualcosa di buono”.

Il parco si sta riempiendo. “E’ davvero un posto democratico, e Olmsted ha capito fin dall’inizio che doveva esserlo”, ha detto Sonja.

Gli appassionati di jogging si sono presentati in quantità e in tutte le dimensioni, forme e colori possibili. Due dozzine di birdwatchers si sono appostati nel fossato tra Bridle Path e il lago artificiale, con tutti i loro binocoli puntati verso lo stesso albero. C’è un regale quintetto di donne che passa a cavallo, diverse coppie di innamorati che passeggiano mano nella mano e un omino trascinato da due grossi cani. Più lontano, una compagnia cinematografica allestisce una scena, un gruppo di studentesse balla sui pattini a rotelle, una squadra di softball in divisa da giocatore marcia verso un diamante e una classe all’aperto di aikido si muove in formazione coreografica.

È metà maggio. Dalle loro finestre si vede un paesaggio che vacilla sull’orlo dell’estate. Le gemme che un mese fa erano strettamente accartocciate si sono dispiegate in foglie grandi come palme. Dove prima c’era solo un accenno di colore nella chioma, ora c’è qualcosa di solido, quasi tangibile. Gli ippocastani sono esplosi in un’improbabile fioritura, con i loro fiori che spuntano dalle foglie, ma la maggior parte dei ciliegi ha fatto il suo corso e la tinta salmone dei rami di salice è ora oscurata da un fogliame verde brillante. Ovunque c’è traccia di vita. Sonja e Angelo hanno parlato abbastanza. “Vieni”, dice Sonja. “Andiamo al parco”.

 


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