Sonja Bullaty
da
Landscape Photography
The art and techniques of eight modern masters
a cura di
Gene Thornton
(Traduzione di Andreina Mancini)
Gli effetti mutevoli del clima, delle condizioni meteorologiche e della stagione sono fondamentali per creare l’atmosfera delle fotografie paesaggistiche di Sonja Bullaty.
In una di esse, le nebbie blu di una foresta del nord attenuano lo sfondo su cui spiccano i tronchi ricoperti di licheni e il tenero verde primaverile. In un’altra, l’aria cristallina del Sud-Ovest americano mette a fuoco ogni macchia, fessura e colore di una parete verticale di un canyon. In alcune foto, dominano la scena foglie autunnali rosseggianti o fiori primaverili dai colori pastello.
In altre, la neve invernale imbianca le rocce, gli alberi e le acque semicongelate, drammatizzando e trasformandone le forme. In uno scatto suggestivo, realizzato sull’isola scozzese di Skye, il meteo stesso è il soggetto principale dell’immagine.
Sopra un campo di fieno e una casetta bianca, un picco roccioso si staglia contro il cielo. Dietro il picco un enorme banco di nebbia avanza, già arricciandosi intorno ai margini del monte e minacciando di inghiottire picco, casa e campo in una pallida nebbia purpurea. Le linee orizzontali del banco di nebbia e del campo fanno un’eco l’una con l’altra, e la cupa oscurità della terra sotto la nebbia è piena di presagi.
Sonja Bullaty è conosciuta soprattutto come parte del team Bullaty e Lomeo, e lei e suo marito, Angelo Lomeo, lavorano spesso insieme nel loro appartamento con vista sul Central Park di New York o nel loro rifugio di campagna nel Vermont. Ma ognuno di loro è arrivato alla fotografia da un percorso diverso.
Sonja Bullaty è nata a Praga, in Cecoslovacchia, dove fino all’età di quattordici anni ha vissuto la normale vita della figlia di un benestante. Poi, quando i nazisti invasero la città, fu ritirata da scuola perché era ebrea, e suo padre le regalò una macchina fotografica come consolazione.
Fu l’unica persona della sua famiglia sopravvissuta alla guerra. Dopo la guerra fu assunta come assistente da Josef Sudek, il più famoso fotografo cecoslovacco, che le insegnò, dice, che “la fotografia può essere più di una professione, è un modo di vivere”: quando arrivò a New York e incontrò Lomeo era già una fotografa esperta, anche se autodidatta.
Insieme Bullaty e Lomeo ottennero un grande successo. I loro reportages sono apparsi sulla maggior parte delle principali riviste di fotografia e su Life, Horizon, Audubon Tree Guide, Time-Life Wilderness Series e su un loro libro, Vermont in All Weathers.
Ogni fotografo lavora anche individualmente. Le opere della Bullaty sono state esposte al Metropolitan Museum of Art e all’International Center of Photography, entrambi a New York, e al Museo d’Arte Moderna di San Paolo, in Brasile. La Bullaty utilizza macchine fotografiche reflex a obiettivo singolo da 35 mm, di solito (anche se non sempre) senza treppiede, e può usare qualsiasi obiettivo, dal grandangolo allo zoom, a seconda delle esigenze dell’immagine.
Lavora principalmente a colori, ma ha lavorato a lungo in bianco e nero, e a volte lo fa ancora. Considera il colore e il bianco e nero come mezzi espressivi diversi ma complementari, come la musica orchestrale e quella da camera.
Occasionalmente usa un filtro riscaldante o un filtro ultravioletto o polarizzante quando lavora in montagna, ma non usa filtri per alterare o distorcere radicalmente i colori della natura.
“Preferisco non manipolare le cose”, dice. “Il mondo è entusiasmante e catturare quello che c’è è una sfida enorme”. Sebbene la Bullaty fotografi persone e città oltre che paesaggi, il paesaggio è per lei “un modo molto importante per esprimere ciò che provo per il mondo.
Quando hai visto le profondità dell’orrore, sei molto più sensibile a un’enorme gioia. Ho spesso pensato che la ragione per cui celebro la vita e la bellezza è proprio perché ho visto tanto dolore e tanta sofferenza”.
Le piace fotografare il paesaggio al mattino presto e subito prima e dopo il tramonto. E sebbene preferisca una giornata nuvolosa per una maggiore saturazione dei colori, trova che ci siano paesaggi che prendono vita soltanto in pieno sole. “Dipende dallo stato d’animo che si ha o che si vuole esprimere”.
Le stagioni – “e ci sono molte stagioni”, dice, “non solo quattro” sono un tema di cui non si stanca mai. L’estate è per lei la stagione più difficile da fotografare, mentre l’inverno, quando “tutto è ridotto all’essenziale”, è il suo preferito. Le piace tornare, più e più volte, a un soggetto familiare come la campagna del Vermont o di New York .
Ma i grandi viaggi le hanno insegnato a valutare rapidamente un nuovo soggetto e a capire che una prima impressione può essere valida quanto una conoscenza più approfondita.
In ogni caso, cerca di avvicinarsi a ogni soggetto con una mente aperta. “Anche se vado là fuori con un’idea preconcetta, ciò che è là fuori in natura determinerà l’immagine”.