FRANCESCO DE FRANCESCO
di Gino Di Maggio
da La scuola delle cose, anno I, n. 4, luglio – agosto 2021
Era capace di tenerti inchiodato per un’ora al telefono spiegandoti la diagonale urbanistica del centro di Santo Stefano di Camastra, un comune sulla costa tirrenica della Sicilia, quasi a metà strada tra Messina e Palermo, due storiche città della nostra isola sempre in competizione tra loro, prevalentemente ma non sempre pacifica. Anni fa ero seduto in un bar sulla strada principale di Santo Stefano di Camastra, a pochi metri dal fantastico belvedere da cui si può ammirare un panorama mozzafiato, a gustarmi un’eccellente granita al limone. Da anni a Milano avevo dimenticato le appartenenze comunali e, pensando di trovarmi in un paese in provincia di Palermo, mi complimentai con la proprietaria dicendole: “Buone così si gustano solo nel Messinese!” La risposta orgogliosa della signora fu: “E dove credi che siamo qui?” A metà del XVII secolo una frana distrusse lo storico abitato di Santo Stefano, che fu ricostruito, si racconta, per volontà e con i denari del duca di Camastra, un po’ più vicino al mare, su una pianta romboidale. Ciccio — così lo chiamavano gli amici, e negli ultimi anni io tra loro — mi spiegava con mille dettagli l’importanza della diagonale urbanistica di Santo Stefano di Camastra, che avrebbe addirittura influenzato una prima realizzazione urbanistica della città di Palermo, esportata poi a Barcellona, nella Catalogna spagnola, e addirittura a New York, negli Stati Uniti d’America.
Conosceva e amava la Sicilia e la sua storia, era un uomo colto, un bravo medico e per di più un ottimo cardiologo. Siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, aveva completato gli studi e si era laureato a Modena, dove aveva conosciuto la sua futura moglie e compagna di una vita e dove aveva iniziato la sua attività professionale. Nel 1972 si era trasferito definitivamente a Bergamo dove svolgeva l’attività di medico, contemporaneamente coltivando la sua antica e mai sopita passione di artista. Era stata questa la ragione del nostro primo incontro, favorito dal comune amico Emilio Isgrò. Ciccio era un dilettante con un potenziale grande talento per la pittura. Ma era senza alcun dubbio uno straordinario e raffinato illustratore di testi. Simpatizzammo e diventammo amici.
Due anni fa, insieme a Nino Sottile che poi ne curò lo svolgimento, lo convincemmo a realizzare alla Fondazione Mudima di Milano, che allora dirigevo, una mostra delle 21 tavole che aveva realizzato per illustrare il libro di Carlo Collodi Le avventure di Pinocchio, di cui per l’occasione pubblicammo una riedizione. La mostra fu un grande e giustificato successo. Contrariamente a quanto si può pensare, il capolavoro di Collodi non è un libro solo per bambini, anzi direi che è soprattutto per noi adulti. È probabilmente il libro più straordinario di tutto il secolo XIX.
Carlo Collodi è stato un precursore geniale della nostra contemporaneità, ha inventato il primo robot della storia, un artefatto che ha funzioni simili all’uomo, può camminare, alimentarsi e fare anche molto di più. È un artefatto che ha coscienza del bene e del male: per questo dice bugie, quelle che gli fanno allungare il naso, e vive di emozioni. È a oggi l’intelligenza artificiale meglio rappresentata, per lo meno a livello letterario. Ci si può confrontare con questo testo illustrandolo solo se si è un artista visionario, come dovrebbero essere gli artisti veri, e Ciccio lo era.
Come era un grande medico. Pur essendo già in pensione, fedele al giuramento di Ippocrate, ha risposto con generosità alla chiamata urgente, e la malattia insidiosa lo ha contaminato e ce lo ha portato via.
È stato uno dei primi cinquanta medici a sacrificarsi per noi tutti.