Da: GAZETTE DES BEAUX ARTS
Marzo 1907
di Albert Grenier
Traduzione di Andreina Mancini e Paolo Pianigiani
L’occasione di una gita a Palestrina in compagnia di amici della villa Medici, alla fine di maggio 1905, ci ha messo davanti a un capolavoro di scultura del periodo rinascimentale, di autore sconosciuto, e finora trascurato da parte di tutti gli storici dell’arte. Di fronte a questo gruppo incompiuto, di straordinaria potenza espressiva, l’opinione è stata unanime : l’opera non poteva che essere di Michelangelo. Questa attribuzione è stata oggetto di molte discussioni da parte degli ospiti dell’Accademia e dei loro amici di Palazzo Farnese durante le belle serate estive trascorse sotto la loggia e nel bosco della villa Medici1. Poiché una fede sincera non rimane senza azione, ci è sembrato che sarebbe stato bene esporre, verso un cerchio meno ristretto, le ragioni della nostra convinzione.
* * *
Questa Pietà si trova nel piccolo Palazzo Barberini, nella zona alta della città, sul fianco del monte Preneste. Si erge sopra l’altare della seconda delle piccole cappelle laterali attaccate all’oratorio di Santa Rosalia adiacente al castello. Una sorta di grande tenda in stucco la incornicia nel modo più sgradevole1. Sembra che essa aderisca, dalla sua parte posteriore, alla collina a cui la cappella è appoggiata.
Il gruppo, composto da tre personaggi un po’ più grandi del naturale3, si presenta come un alto rilievo senza foro. In primo piano, Cristo, appena staccato dalla croce, scivola pesantemente verso terra. I suoi piedi hanno appena toccato il suolo. Entrambe le gambe inerti si flettono sotto il peso del corpo. In piedi da dietro, con la mano sotto l’ascella di suo figlio, la Vergine lo sostiene con fatica. Fa riposare sulla sua spalla la testa dolorosa del suppliziato e, sporgendosi in avanti, ne contempla, con un’espressione di tristezza contenuta, i tratti rilassati dalla morte.
In questi due volti, strettamente avvicinati l’uno all’altro, si concentra il drammatico interesse della scena. A sinistra, la Maddalena semicurva si affretta ad aiutare la Vergine. La sua figura graziosa, di fronte, su un corpo di profilo, e leggermente rivolta di lato, sembra chiamare a testimoni gli spettatori di questa scena tristissima.
Strettamente unita al gruppo principale, essa ne ripristina l’equilibrio, senza rompere l’armonia della composizione. Linee gravi, espressione sobria, il lavoro è di un effetto intenso, ottenuto con mezzi molto semplici. Può solo essere di un artista assolutamente padrone della sua arte, e porta il segno dell’epoca d’oro della scultura italiana. Come abbiamo già accennato, il gruppo di Palestrina è rimasto incompiuto. Quasi finito in alcune parti, è rimasto solo abbozzato in altre. Il pezzo essenziale, il corpo nudo di Cristo, è la parte più avanzata. L’anatomia è molto definita. Le linee del busto sono nervose e violente.
- L’aggiunta di questa tenda risale a non più di trent’anni fa. Il principe Barberini, che gentilmente mi ha permesso di fotografare e studiare il gruppo della sua cappella, avrebbe fatto opera buona distruggendo questo ingombrante lavoro.
- Il custode della cappella sostiene che il gruppo è scolpito nella stessa roccia della collina. Ho trovato la stessa affermazione in Pierantonio Petrini, Memorie Prenestine disposte in forma di Annali, Roma, 1795, p. 259. La presenza della tenda in stucco impedisce di verificarlo. La pietra è una sorta di marmo colorato di rosa di cui si trovano delle vene nella collina di Preneste (cfr. Suaresius, Praenestis antiquae libri II, Roma, 1655, p. 287). Il foro irregolare che si nota in basso sotto al gruppo tra Cristo e la Maddalena sembra segnare una vena di pietra di qualità inferiore. Che il blocco aderisca o meno alla collina, è certo che abbiamo a che fare con un’opera scolpita dalla pietra del paese ed eseguita sul posto, se non nel posto.
- L’intero gruppo è alto 2m 25 di altezza su 1m 30 di larghezza.
I grandi muscoli dell’addome, molto vicini tra loro, il basso ventre serrato e leggermente sporgente mostrano anch’essi un modellato estremamente vigoroso. A una prima occhiata, si è colpiti dalla sproporzione che esiste tra il petto, enorme, e i fianchi e le cosce, di una magrezza quasi da malato. Le legamenti del ginocchio, è vero, sono forti e, almeno per il ginocchio destro, sembrano quasi nodosi. I polpacci sono potenti, e i piedi, a giudicare dal sinistro, che mostra uno stadio di lavorazione molto avanzato, sono di proporzioni quasi normali. L’effetto desiderato di questo eccesso di volume del busto, è, senza dubbio, quello di forzare l’impressione di inerte pesantezza di questo corpo collassante. Va notato, del resto, che le parti più magre, il basso ventre e le cosce, sono le più rifinite. Non c’è più nulla da riprendere, il marmo è perfettamente levigato. Il risultato di questo lavoro di completamento era una grande semplificazione. Ce ne accorgiamo confrontando il disegno delle cosce con quello dei muscoli dell’addome, delle costole e della gabbia toracica. Il completamento del busto gli avrebbe tolto del volume. La sproporzione tra la parte superiore e quella inferiore del corpo deriva certamente, in parte, dal diverso grado di avanzamento del lavoro.
Lo studio del braccio destro di Cristo conferma questa osservazione. Cadendo quasi verticalmente, la mano semi-chiusa, questo braccio è appena abbozzato con raspa e punta. Le parti superficiali della mano sono semplicemente sgrossate con lo scalpello. Meno avanzato del busto, il braccio è di proporzioni ancora più enormi… Dietro è rimasto anche uno spessore di 10 centimetri. L’intenzione dell’artista era probabilmente quella di conservare nel braccio questo carattere di massa potente e inerte, facendo con la testa un contrappeso rispetto a tutto il resto del corpo. L’effetto di questa parte dell’abbozzo è straordinariamente potente. Si capisce tuttavia, dall’ accenno del disegno dei muscoli, che lo scultore intendeva scavare questo abbozzo, come ha scavato quello del torace. Avrebbe finito assottigliando la superficie delle parti sporgenti, annegando, per così dire, i dettagli dell’anatomia, per arrivare, come ha fatto per le gambe, a un insieme sia semplice che vivo. Una tecnica in cui traspaiono così la violenza della sensazione dell’artista, l’attenzione tormentata ai dettagli e il sentimento profondo dell’insieme si avvicina singolarmente a quella tecnica che noi sappiamo essere stata propria di Michelangelo.
1 Questo è assolutamente lo stesso procedimento di lavoro che si può osservare nei due Prigioni incompiuti del Louvre, e in quelli del giardino di Boboli di Firenze.
Le teste dei tre personaggi sono rimaste solo abbozzate. La più avanzata è quella del Cristo, trattata metà allo scalpello, metà alla gradina. Piegata sulla spalla della Vergine, la testa si presenta di scorcio. La fronte, incorniciata da due spesse masse di capelli, è liscia. Il naso, spesso e dritto, si attacca ad essa direttamente; i grandi occhi incavati, molto lontani fra loro, la dolorosa piega della bocca sotto i baffi cadenti, rendono con intensità l’espressione della pacificazione portata alla sofferenza dalla morte. L’abbandono della testa fa risaltare violentemente il muscolo del collo. L’attaccatura del collo e quella della spalla sinistra sono del resto indicati molto sommariamente. Tutta questa parte è trattata per masse. Vi si avverte la dislocazione del corpo torturato in cui la vita non armonizza più i movimenti. Più velocemente ancora è stato abbozzato il personaggio della Vergine. Le pieghe delle sue vesti appena tracciate e il sudario nel quale riceve il corpo di suo figlio formano lo sfondo del gruppo. Sul viso e nei capelli si segue la traccia dei lunghi e veloci colpi di scalpello. L’opera è rimasta solo impostata, e già, però, dagli occhi ancora chiusi, dalla bocca e dall’atteggiamento della testa emerge un’espressione di profondo dolore, calmo e senza smorfie.
A destra della Vergine e un po’ più in basso, la Maddalena, mezzo inginocchiata, sembra chinarsi in avanti. Il corpo, appena sgrossato, ha una linea snella. Il viso, abbozzato con la gradina, sembra, di fronte, un po’ morbido e di una rotondità insignificante. Visto dalla destra del gruppo, presenta, al contrario, un ovale allungato già molto michelangiolesco. Il completamento l’avrebbe probabilmente ulteriormente affinato e gli avrebbe dato più carattere. Sembra che lo scultore abbia voluto opporre la grazia di questo giovane corpo dolcemente inclinato e questo volto a metà chinato all’inerzia cadaverica dell’uomo torturato e allo sforzo doloroso della madre che si irrigidisce per sorreggere il corpo del figlio.
Una leggera scheggia di pietra mutila la punta del naso della Vergine. Non è stato questo leggero incidente che ha potuto determinare l’abbandono del gruppo, soprattutto perché lo scultore aveva conservato, dietro la testa della Vergine, uno spessore di oltre 40 cm di materiale. Si cerca inutilmente il nome dell’artista, diverso da Michelangelo, al quale un genio capriccioso e sempre inquieto, l’irritazione sprezzante contro il proprio lavoro, o il malcontento morboso di sé stesso, avrebbe potuto far abbandonare uno schizzo così potentemente concepito e così pieno di promesse. Tutto, al contrario, in questa bozza,
gli scontri innegabili, le sproporzioni volute e piene d’effetto, la rapidità violenta dell’opera, resi evidenti dai colpi ancora visibili dello scalpello che intaglia le immagini nella pietra, indica la mano di Michelangelo.
C’è una sola obiezione contro l’attribuzione che noi proponiamo: nessuno dei biografi di Michelangelo sembra essere stato a conoscenza di questa Pietà di Palestrina, e non ne troviamo menzione neppure nella corrispondenza del maestro stesso. Infatti bisogna che i biografi ci parlino di tutte le opere che riconosciamo oggi come di Michelangelo. Non hanno mai pensato di compilare un catalogo completo dei suoi schizzi e dei suoi abbozzi. Una Pietà, scolpita dal maestro, fuori dalla sua bottega, nella piccola città di Palestrina, potrebbe molto facilmente sfuggire alle loro ricerche . Per quanto riguarda la corrispondenza di Michelangelo, essa è piena di lacune. L’intero periodo che segue il completamento della tomba di Giulio Il, in particolare, è poco rappresentato. Le lettere, inoltre, abbastanza esplicite circa le relazioni, la famiglia e gli affari dell’artista, sono molto avare di dettagli per tutto ciò che riguarda il suo lavoro. È, inoltre, abbastanza certo che se si fosse parlato da qualche parte della Pietà di Palestrina, quest’opera non sarebbe rimasta sconosciuta. L’oscurità in cui è rimasta fino ad oggi non è, ci sembra, una valida ragione contro la sua attribuzione a Michelangelo.
In mancanza di informazioni derivanti dalla vita di Michelangelo, abbiamo pensato di dover cercare nelle monografie dedicate a Palestrina qualche indicazione su questa Pietà, l’opera d’arte di gran lunga più notevole della cittadina. Dagli storici di Palestrina c’è poco da ricavare.
- La foga con cui sono abbozzate le parti incompiute della Pietà di Palestrina evoca il ricordo della descrizione di Michelangelo all’opera, lasciataci da uno dei nostri compatrioti: “A questo punto, posso dire di aver visto Michelangelo, benché più che sessantenne e non particolarmente robusto, tagliare più scaglie di un marmo molto duro in un quarto d’ora, che tre giovani scalpellini non avrebbero potuto fare in tre o quattro, cosa quasi incredibile per chi non l’avesse visto: e si accaniva con una tale impetuosità e furia che io pensavo che l’intero lavoro dovesse andare in pezzi, abbattendo a terra, tutto in una volta, grandi pezzi di tre o quattro dita di spessore, con precisione come sempre, che se fosse andato avanti anche di poco, c’era il pericolo di perdere tutto, perché quello non si può più rifare in seguito, né riparare come le figure di argilla o di stucco (Osservazioni del signor Pierre Mariette sulla vita di Michelangelo, scritta dal Condivi, suo allievo, seconda ed., Firenze, 1716, p. 76.) Mariette stesso ricava notizie dalle Annotazioni di Pierre de Vigenère sulle opere o i quadri di Filostrato.
Il più antico, Suaresius, risale solo alla metà del XVIII secolo. La sua raccolta1 è dedicata alla gloria della famiglia Barberini, della quale era al servizio, che nel 1630 aveva comprato dai Colonna il feudo e il castello di Palestrina2. Intorno al 1650, racconta Suaresius, uno scultore al servizio del cardinale Barberini, Nicola Menghini, avrebbe scoperto nella montagna di Palestrina delle vene di una pietra dura e lucida come il marmo e di colore rossastro, e se ne sarebbe servito per eseguire diverse sculture decorative destinate all’ornamento del palazzo Barberini. «Joannes insuper Laurentius Berninus » aggiunge, « eques ingeniosissimus et celeberrimus architectus, effinxit illo e lapide cranium seu calvariam, quæ naturam ipsam exsuperat, et pulvinari quod heraclio e silici concinnarat, imposuit;»3 : « Il Bernini fece di questa pietra un cranio o testa di morto- tale è il significato esatto della parola calvarium nella lingua medica latina – e lo dispose su un cuscino che aveva incrostato di pietre di silicio. » .
Niente in questo testo si riferisce al gruppo incompiuto della Pietà. Tuttavia sembra che queste chiacchiere insignificanti di Suaresius siano state all’origine dell’attribuzione dell’opera a Bernini. Ecco ciò che ne trae, riferendosi al passaggio di cui sopra, l’ultimo dei cronisti di Palestrina4: “ La cappella interna fu riservata alla sepoltura della famiglia Barberini; dal lato che si appoggia alla montagna, si costruì un altare su cui si vede una scultura più grande del naturale, che rappresenta la Vergine Maria che sostiene sul petto il cadavere di Gesù. L’opera è rimasta allo stato di bozza. Si dice che sia stata scolpita in un blocco che, in questo punto, sporgeva dal lato della montagna. L’opera è così ammirevole che la si attribuisce comunemente o al cavalier Gian Lorenzo Bernini, o a Nicola Menghini, famoso scultore dell’epoca, al servizio della famiglia Barberini. E l’autore rimanda al passaggio di Suaresius che abbiamo citato.
- Praenestis antiquae libri II. Romae, 1655 in-4°
2. Dopo molte trattative, sono riuscito a penetrare nell’Archivio Colonna diretto dal signor Tomassetti. Speravo di trovare forse qualche documento, ordine o nota relativo al gruppo della Pietà. Le mie ricerche furono vane. I libri contabili conservati negli Archivi Colonna non iniziano che nel 1630.
3. Suaresius, Praenestis antiquae libri II, p.287.
4. Pierantonio Petrini Memorie Prenestine disposte in forma di Annali. Roma, 1795, in-8°, p.259
E’ stato reso troppo onore al molto mediocre e molto oscuro Nicola Menghini. Il cronista di Palestrina probabilmente non lo conosceva più di quanto avesse idea dello stile di Bernini. Aveva dovuto solo leggere rapidamente l’autore più antico al quale si riferisce. Ha preso con indifferenza i nomi dei due scultori che ha trovato citati in quanto avevano lavorato il marmo locale di Palestrina, di cui precisamente è fatta la nostra Pietà. Chissà perfino se la parola calvariam, che una distrazione trasforma facilmente in Calvarium , non sia stata la causa determinante del rapporto stabilito da Petrini tra questa scultura, che a rigore si potrebbe chiamare un Calvario, e il nome di Bernini? Una circostanza, del resto, potrebbe, per un annalista leggero, sembrare confermare questa attribuzione a Bernini: è la presenza nella prima cappella laterale della Chiesa di Santa Rosalia, di diverse tombe della famiglia Barberini, opere autentiche di Bernini, e firmate da lui. È per lo stesso motivo, senza dubbio, che ancora oggi le guide attribuiscono a Bernini la Pietà di Palestrina.1 Il grande carattere di questo abbozzo, così diverso dallo stile di Bernini, dispensa dal discutere la loro affermazione.
A favore dell’attribuzione del gruppo della Pietà a Michelangelo, abbiamo solo la tradizione popolare di Palestrina e la testimonianza di un unico storico, semplicemente un’ eco, a quanto pare, di questa tradizione. Si sa del resto con quanta facilità in Italia la voce pubblica e la storia locale concordino per attribuire a Michelangelo o a Raffaello le opere più insignificanti. Comunque sia, il nostro autore, Cecconi, che nel 1756 scrisse una storia di Palestrina, ha sugli altri annalisti il vantaggio di una maggiore precisione. Questa precisione, segno di coscienziosa attenzione, è un indizio di veridicità che merita considerazione. Si può solo rammaricarsi che questo indizio, tutto intrinseco, sia l’unico, e che Cecconi non abbia creduto bene di citare i fatti o i documenti su cui ha basato la sua affermazione. Ecco ciò che si limita a dirci:3 – Molto bella e molto ricca è la chiesa dedicata a Santa Rosalia, seconda protettrice della città. Fu costruita dal famoso architetto Contini (circa 1670), rivestita di marmi dai colori molto fini e ornata con statue e monumenti dei Principi e Cardinali della famiglia Barberini, ai quali serve come sepoltura.
- Abbate, Guida della Provincia di Roma, II, p. 353 – “Si mostra nella chiesa di santa Rosalia un gruppo della Pietà, scolpito nella roccia viva e incompiuto. E’ attribuito a Michelangelo, ma è piuttosto del Bernini.”
2. Cecconi, Storia di Palestrina, Ascoli, 1756, in-4°
3. Cecconi, Op.cit., cap. 8, 22, p. 110-111.
Si ammira, inoltre, nella cappella interna, una statua della Vergine Addolorata con Gesù morto sul seno, abbozzo del famoso Buonarroti”
Possiamo, da parte nostra, sostenere almeno con alcuni fatti probabili l’affermazione di Cecconi? Le biografie di Michelangelo senza dubbio non ci forniscono alcuna indicazione circa un suo soggiorno a Palestrina. Ma varie circostanze rendono questo soggiorno molto verosimile, soprattutto tra il 1541 e il 1550. Questo periodo è uno dei più confusi e oscuri della vita dell’artista. Strettamente collegato alla corte di Papa Paolo III e dei Farnese; costretto a dipingere, invita Minerva, gli affreschi della cappella Paolina, si preoccupa, si agita, cerca di sfuggire al suo giogo, e cade più volte gravemente malato. All’inizio del 1545 un favore del papa gli ha permesso di interrompere il suo lavoro di pittore2.
Subito ne approfitta per tornare a fare lo scultore, disegnando un progetto di sepoltura per il suo carissimo allievo Cecchino Bracci. Alla fine dell’anno l’opera, sembra, era già abbastanza avanzata e prometteva di essere un capolavoro degno di Michelangelo.3 Non abbiamo conservato alcuna traccia di questo monumento e non abbiamo altri dettagli su di esso. All’inizio del 1546, Michelangelo è ancora così gravemente malato che a Firenze si diffonde la voce della sua morte.4 La sua vita continua così fino al completamento della Cappella Paolina, intorno al 1550, al servizio di mecenati indiscreti, in una dolorosa alternativa di fatica ingrata, di sofferenze fisiche e di troppo brevi ritorni alla sua arte preferita, la scultura.
Ora, precisamente nel 1541, era scoppiata una guerra tra i Colonna, proprietari del feudo di Palestrina, e Papa Paolo III. Pier-Luigi Farnese espugnò e occupò Palestrina. Fino al 1550, quando Papa Giulio III rese il feudo ai Colonna, la città e il suo castello rimasero nelle mani dei Farnese. Non potremmo forse supporre che un principe Farnese, un giorno, abbia potuto portare Michelangelo fino ai nuovi possedimenti conquistati dalla famiglia?
- Nel 1542, difficoltà per il completamento della tomba di Giulio II. Durante quasi tutto il 1543 non si ha praticamente nessuna notizia di Michelangelo. Nel 1544 si rompe una gamba.
2. Lettera di Michelangelo, 3 febbraio 1545.
3. Gotti, Vita di Michelangelo, I, p.282.
4. Lettera da Michele Guicciardini a Giovan-Simone, fratello di Michelangelo, 22 gennaio I546.
La presenza di una vena più fine sul fianco della montagna, vicino al palazzo, avrebbe risvegliato, nel pittore suo malgrado della cappella Paolina, l’istinto dello scultore. Come aveva voluto fare nella montagna di marmo di Carrara, avrebbe iniziato a intagliare nella roccia stessa l’immagine racchiusa oggi nella cappella di Santa. Rosalia. Richiamato dal Papa, o semplicemente cambiando capriccio, avrebbe, dopo un breve periodo, abbandonato il suo abbozzo e non sarebbe mai tornato, senza mai degnarsi di parlarne ai suoi discepoli di Roma.
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Le considerazioni e le congetture presentate finora rendono verosimile l’attribuzione a Michelangelo della Pietà di Palestrina. Il confronto di questo gruppo con altre opere, sculture, pitture e disegni, che sappiamo provenire da Michelangelo, trasforma questa verosimiglianza in certezza.
Il motivo della Pietà, così come viene trattata a Palestrina, rappresenta un momento intermedio tra la discesa dalla croce in cui il corpo di Cristo, mezzo staccato dalla forca, verrà ricevuto solo dai suoi fedeli e dalla madre, e la scena, un po’ banale, trattata dallo stesso Michelangelo, all’inizio della sua carriera, nella Pietà di San Pietro a Roma, dove la Vergine, seduta, contempla e mostra ai fedeli il corpo di suo figlio disteso sulle sue ginocchia. Questo nuovo motivo fa parte sia del movimento pittorico della discesa dalla croce sia di quello patetico che emerge dal doloroso abbraccio della madre che riceve il cadavere di Gesù. È assolutamente al di fuori della serie di soggetti comuni, imposti dalla tradizione artistica o religiosa. Appartiene solo a Michelangelo. Non si trova niente di analogo nell’opera di nessun altro artista.
La più nota Pietà di questo genere è quella che attualmente si trova dietro l’altare maggiore del Duomo di Firenze. Sappiamo che Michelangelo aveva intrapreso con amore quest’opera intorno al 1550, dopo il completamento degli affreschi della cappella Paolina. Si proponeva di donarlo ad una qualche chiesa, per essere sepolto ai piedi dell’altare dove la scultura sarebbe stata posta. Quella che stava preparando era, per così dire, la sua tomba.
Nel 1555 abbandona il gruppo quasi finito e, in un movimento di rabbia, la frantuma in minuscoli pezzi, che furono in seguito raccolti e rimessi insieme dai suoi discepoli.
Il gruppo presenta delle somiglianze estremamente sorprendenti con quello di Palestrina. Il soggetto è concepito nello stesso modo. L’unica differenza consiste nella presenza di Nicodemo, che, a Firenze, sostiene il corpo di Cristo e lo consegna alla Vergine. La parte essenziale in ognuna di queste due opere è il corpo di Cristo che si accascia su se stesso. In entrambi i casi, l’intenzione patetica è espressa dalla tenera e desolata vicinanza tra il volto della Vergine e quello del figlio. Il braccio destro di Cristo, a Firenze, il braccio sinistro a Palestrina, si appoggiano entrambi alla spalla della Maddalena, inginocchiata quasi nella stessa posizione. Confrontiamo soprattutto il modo in cui, nelle due opere, è costruito il volto di Cristo: stessa fronte stretta tra due spesse ciocche di capelli, stesso naso dritto e spesso, attaccato direttamente alla fronte; la bocca, i baffi, la barba, l’attacco del collo, violentemente contorto e dall’aspetto tumefatto, sono assolutamente identici.
Perfino le piccole strisce che passano sul petto del Cristo, usate per calare il corpo della croce, e che velano la sua nudità, tradiscono la stessa mano. Nonostante il loro diverso stato di completamento, che non bisogna perdere di vista, le due sculture sono troppo vicine per essere attribuite a due artisti diversi.
Un’altra Pietà, rimasta in uno stato di sbozzatura molto meno avanzata di quello di Palestrina, le si avvicina molto. Questa è quella a cui stava lavorando Michelangelo, cinque giorni prima della sua morte, il 15 febbraio 1563. Si trova nel cortile del Palazzo Rondanini, al Corso, a Roma. La scena è concentrata tra madre e figlio. È la Vergine che, come a Palestrina, sostiene il corpo di Cristo. Come a Palestrina, china dolcemente il viso verso quella del figlio. Il braccio isolato, che cade verticalmente come quello del Cristo di Palestrina, e che si trova a destra del gruppo, appartiene ad un primo stadio del progetto. Il busto del Cristo, in questo primo progetto, doveva essere molto voluminoso. Fu in seguito notevolmente ridotto. La Pietà Rondanini sembra solo un’ultima correzione fatta da Michelangelo ad un abbozzo molto vicino a quello tracciato nella roccia di Palestrina.
Per trovare l’origine, nello spirito di Michelangelo, dell’immagine che gli ha ispirato i tre gruppi scultorei di Firenze, di Palestrina, e del Corso, è necessario risalire fino all’inizio dell’ultimo periodo della sua vita, verso il 1540. Il primo schizzo è nel disegno che fece a quell’epoca per la marchesa di Pescara. Ecco come Condivi ce lo descrive:1 “Fece, su richiesta della marchesa, un Cristo nudo, nel momento in cui è appena stato deposto dalla croce. Come un corpo inerte, sarebbe caduto ai piedi della sua santissima madre, se due piccoli angeli non lo avessero sostenuto per le braccia. La Vergine, seduta ai piedi della croce, il volto in lacrime, e tutta dolente, alza al cielo entrambe le braccia e le mani aperte, e sembra pronunciare queste parole che si leggono sul tronco della croce Non vi si pensa quanto sangue costa.”
- Vita di Michelagnolo Buonarroti, publicata mentre viveva, dal suo scolare Condivi Ascanio, cap. LXIII.
È già il sentimento e il motivo principale del gruppo di opere che studiamo: il dolore della Vergine davanti al cadavere di suo figlio e nello stesso tempo la caduta pesante di quel corpo inerte che si affloscia su se stesso.1
- Citeremo qui un piccolo quadro del museo di Bologna (n.350), attribuito alla scuola di Michelangelo e raffigurante una Pietà: su uno sfondo di rocce, la Vergine, seduta in primo piano, sostiene, tenendolo sotto le braccia, il corpo inanimato del Cristo. Questa scena ricorda da vicino il gruppo centrale della Pietà del Duomo di Firenze.
- Questi disegni mi sono stati segnalati dal sig. Berenson, del quale devo rendere nota l’estrema gentilezza. Vedi Robinson, Critical account, pag. 80, e Berenson, Disegni dei pittori fiorentini, catalogo, pag. 99, n° 1572; testo, p. 227. Entrambi i critici d’arte concordano nel far risalire questi disegni all’ultimo periodo della vita di Michelangelo (1541-1563), e nel riconoscerne la relazione con i gruppi di Firenze e del Corso.
Altri schizzi, molto diversi, ed evidentemente posteriori, ci mostrano lo stesso soggetto che continua ad occupare la mente di Michelangelo ed è più vicino al motivo delle sculture di Palestrina e del palazzo Rondanini. Sono conservati presso la biblioteca di Oxford2. Si tratta di studi sommari, per mezzo dei quali Michelangelo precisava rapidamente le immagini che si proponeva di dipingere o di scolpire. Il primo di questi disegni raffigura la Vergine in piedi dietro il Cristo mentre si sforza di trattenere, sostenendolo sotto entrambe le braccia, il cadavere che si affloscia pesantemente verso destra. Le linee del corpo del Cristo sono più chiaramente indicate nel secondo.
Per il braccio destro, il busto e la posizione delle gambe non si può non riconoscere la somiglianza di questo schizzo con il gruppo di Palestrina. Solo un particolare la avvicina maggiormente alla Pietà Rondanini: la Vergine è su un piano più alto di Cristo. Lei lo domina per tutta l’altezza del busto, in modo che la testa di Gesù, invece di riposare sulla spalla di sua madre, cade pesantemente in avanti. Se non fosse per questa differenza, il disegno di Oxford dovrebbe essere considerato lo studio preparatorio del gruppo stesso di Palestrina.
Un ultimo lavoro, se fosse ancora necessario, potrebbe essere utilizzato per confermare l’attribuzione a Michelangelo della Pietà di Palestrina. Si tratta di un dipinto della National Gallery, proveniente dall’ex collezione del Cardinale Fesch, e che, dal 1846, è riconosciuto come uno dei dipinti incompiuti che Michelangelo ha lasciato alla sua morte.1 Il gruppo centrale è formato da san Giovanni, Nicodemo, Giuseppe e la Maddalena che sostengono il corpo inanimato del Salvatore.2 A sinistra Salomè è seduta per terra, mentre dall’altra parte sono inginocchiate la Vergine e Maria, moglie di Cleofa.
Il corpo di Cristo nel suo insieme, in particolare il disegno delle gambe rivolte verso destra, ricorda molto da vicino la Pietà di Palestrina. Questa quasi identità di linee tra il dipinto e il gruppo scultoreo non fornisce forse la prova evidente che entrambe le opere sono dovute allo stesso artista? L’immaginazione che li ha progettati entrambi (perché non può essere una questione di copia) può essere di un solo e unico autore. La somiglianza che li unisce l’uno all’altro esclude anche che ci possa essere fra loro un lungo intervallo di tempo.
- Gotti, Vita di Michelangelo, II ed. II, pag. 240.
- Uno degli schizzi di Oxford, conservato sullo stesso foglio di quelli che abbiamo menzionato sopra, rappresenta il Cristo, con le braccia sulle spalle di due personaggi che lo sostengono dai due lati. Questo deve essere considerato come uno studio per il gruppo centrale di questo quadro.
È abbastanza difficile datare le diverse opere che furono ispirate a Michelangelo dallo stesso sentimento di pietà che riempì la fine della sua vita e anche probabilmente dalla stessa cura malinconica di preparare la propria tomba.
Se si tiene conto solo dell’evoluzione logica che dovette subire il motivo della Pietà nell’immaginazione dell’artista, si potrebbe pensare che il gruppo di Palestrina deve trovare posto tra quello di Firenze e quello del palazzo Rondanini, cioè circa fra il 1555 e il 1560.
La Pietà di Firenze rappresenta ancora, in effetti, “la Vergine seduta, con il volto in lacrime e tutta dolente, mentre alza le braccia” per ricevere suo figlio, come è stata rappresentata nel disegno eseguito una decina d’anni prima per la marchesa di Pescara.
I disegni di Oxford e della Pietà di Palestrina rappresenterebbero una semplificazione del gruppo primitivo, semplificazione che ne concentra e aumenta ancora l’effetto patetico.
Il dipinto incompiuto della National Gallery, per l’idea generale del soggetto, si avvicina di più al gruppo di Firenze, mentre per il disegno del corpo del Cristo è estremamente vicino a quello di Palestrina. Esso serve come collegamento e costituisce una transizione fra l’uno e l’altro. Per quanto riguarda la Pietà Rondanini, essa segnerebbe una nuova concezione più fragile e più tormentata di un motivo molto vicino a quello accennato a Palestrina.
Ma l’apparenza logica, la sequenza regolare, non potrebbero essere argomenti validi quando si tratta di classificare le capricciose ispirazioni di un genio come Michelangelo. Un dettaglio della Pietà del Palazzo Rondanini, questo braccio isolato a destra del gruppo, mostra in questa bozza una semplice modifica di uno schizzo primitivo piuttosto vicino alla Pietà di Palestrina. Forse è permesso identificare questo primo schizzo con quell’ antico abbozzo di una Pietà che, secondo Vasari,1 i discepoli del Maestro gli rimisero tra le mani dopo che ebbe rotto il gruppo del Duomo di Firenze. Il motivo più semplice, quello della Vergine in piedi dietro il figlio mentre lo sostiene sul petto, sarebbe quindi il più antico. Michelangelo avrebbe scolpito nella roccia di Palestrina la Pietà che noi vi troviamo oggi, nello stesso periodo in cui sbozzava a Roma il marmo dimenticato, poi ripreso, che doveva diventare la Pietà Rondanini. La Pietà di Palestrina, di conseguenza, e il dipinto di Londra, sarebbero quindi leggermente anteriori all’anno 1550. Questo è esattamente il momento in cui Michelangelo è stato in grado, più facilmente, di andare a lavorare a Palestrina.
Sembra abbastanza certo, in ogni caso, che il gruppo del piccolo palazzo Barberini, che conserva così da vicino l’opera e il pensiero stesso di Michelangelo, che, d’altra parte, porta in modo così evidente il segno della sua arte e della sua tecnica, non può essere attribuito ad altri artisti che a Michelangelo stesso.
A. GRENIER
1. Vita di Michelagnolo Buonarroti, cap. LXIX, Ed. C.Frey, p.220 – E tornando poi a Michelagnolo, fu necessario trovar qualcosa poi di marmo, perchè e’ potessi ogni giorno passar tempo scarpellando, e fu messo un altro pezzo di marmo già abbozzato un altra Pietà, varia da quella (che aveva fatto a pezzi) molto minore.